
«Una società che mette il denaro al di sopra dei valori umani produce individui malati, alienati e infelici» scriveva il saggista Erich Fromm e le statistiche del nostro secolo ne provano la sagacia. Isabella Schiavone rivela in queste pagine una storia che non si lascia imbrigliare dai grafici Excel, né dalle newsletter aziendali stile «Wellbeing in the Workplace». L’inviata veterana del TG1 Rai affronta con eleganza intellettuale e coraggio etico l’ipocrisia che ammanta il mondo del lavoro in Italia — e non solo — raccontandoci ciò che spesso chi ha un microfono a capotavola nei meeting, un badge dirigenziale VIP o una mail istituzionale da AD preferisce ignorare, che di lavoro, oggi, due secoli dopo la rivoluzione industriale a Manchester, ci si può ancora ammalare, nel corpo e nella mente.
Non leggerete un pamphlet ideologico e nemmeno una raccolta di casi clinici. Avete fra le mani un atto civile, uno di quelli che oggi — nell’era dell’iper-produttività, dei KPI, key performance indicator, e del «reskilling» forzoso— somiglia più a un feuilleton animoso che a un reportage inamidato, un’eresia finalmente necessaria.
Nel suo racconto, fatto di testimonianze, dati, intuizioni e un lessico limpido da cronista militante, Schiavone ci parla di una realtà diffusa ma negata: quella dei luoghi di lavoro che ricordano più la serie tv Gomorra che l’utopia sociale di Adriano Olivetti. Posti dove la leadership si esercita a colpi di mail notturne, dove la creatività è percepita come minaccia, dove il capo non è guida, ma predatore rapace. Dove l’ansia da prestazione — da cui non sono immuni né le start-up dell’Intelligenza Artificiale, né gli antichi ministeri — diventa servitù contemporanea.
E allora che fare? Il saggio parte da ciò che l’inviata del New Yorker Hannah Arendt definì la “banalità del male”, la condizione in cui i soprusi non hanno più bisogno di urla o prepotenze, perché diventano prassi, cultura organizzativa, linguaggio. Il bullismo non esiste solo nelle scuole, scrive Schiavone con semplicità disarmante, dilaga anche negli ambienti professionali. E in quel dilaga c’è tutta la forza del suo racconto.
Perché Il lavoro Tossico non è solo una denuncia. È un’indagine. Un attraversamento critico del tempo che viviamo, in cui le grandi trasformazioni — l’AI, la disintermediazione digitale, la pandemia Covid 19, il lavoro da remoto — si sono saldate a fragilità più antiche: la cultura del sospetto, l’assenza di meritocrazia, la verticalizzazione delle responsabilità, la retorica dell’infallibilità dei vertici. Il risultato è ciò che il canadese-ungherese Gabor Maté chiama «malattia culturale»: la patologia del nostro modo di vivere e lavorare. Che è poi, in fondo, il nostro modo di essere, soprattutto in un’Italia dove il premoderno convive con il digitale.
Non ci si ammala solo per fatica, ci si ammala per invisibilità. Per ingiustizia. Per un mondo che — ricorda il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han — ha abolito l’inferno ma l’ha sostituito con la depressione.
Il libro di Schiavone è importante perché coniuga analisi e proposta, spiegando, sulla falsariga del sociologo francese Christophe Dejours, che il lavoro non deve mai essere solo prestazione, ma sempre anche riconoscimento, appartenenza, senso identitario. Quando tutto questo manca — o peggio, viene negato per imposizione — il corpo si ribella. Lo fa attraverso il burnout, il mobbing subito, i disturbi d’ansia, l’insonnia, il reflusso gastrico, la tachicardia, sintomi che molti di noi hanno imparato a portare con sé ogni sera a casa, ombra dietro la porta.
Le pagine che seguono ci costringono a riflettere: cosa vuol dire oggi essere un “buon capo”? È forse imporre orari, obiettivi e ansie con la freddezza con cui si firma un delivery task? O creare contesti dove — come suggerisce la psicologa del lavoro Amy Edmondson — ci si possa permettere di fallire, di imparare, di non sapere sempre tutto? E cosa vuol dire essere un “buon dipendente”? Tacere, chinare il capo, adattarsi e consumarsi lividi? O è meglio difendere la propria dignità, anche a costo di pagare un prezzo in carriera, secondo quanto scriveva Furio Colombo nel suo classico “Carriera vale una vita?”.
Schiavone attraversa questi dilemmi con passo da reporter e sarete colpiti dal tono personale, quasi confidenziale, con cui accompagna il lettore, suggerendo: “So che ti è capitato. È capitato a tanti. E ora possiamo parlarne…”.
Nell’Italia dove la cultura del lavoro è purtroppo greve di gerarchia arcaica, clientelismo e maschilismo, “Il lavoro Tossico” ha il merito di chiamare le cose con il loro nome scomodo: abuso. Abuso di potere, abuso di tempo, abuso di fiducia. E, talvolta, abuso del corpo e della mente. Un abuso che non fa rumore, che si consuma tra le scrivanie e le chat, tra i turni in ospedale e i corridoi degli stabilimenti, ma che lascia segni dolorosi.
Eppure, tra le righe, affiora la speranza di un’utopia concreta, un lavoro che sia luogo di libertà e non di timore, di incontro, non di isolamento, di valorizzazione e non invidia. È l’utopia che inseguono i giovani che si licenziano da posti sicuri per un sogno; colleghi che solidarizzano invece di competere come belve; aziende che scelgono di mettere la persona — non il profitto — al centro; dirigenti capaci di guardare al team di esseri umani per lo sviluppo di brand e comunità.
“Il lavoro Tossico” è un atto di giornalismo civile, di quelli che non urlano come i talk show sguaiati, ma trasformano con gentilezza, non cercando vendette, ma verità, avrebbe detto il filosofo Albert Camus — «non giudicare, ma testimoniare». Alla fine della lettura, ci si sentirà forse più fragili ma anche più autentici e consapevoli, forse, anche, un po’ più liberi.
Quando lavoravo al Tg 1, qualche anno or sono, Isabella Schiavone, realizzò un documentario sull’opera di Don Paolo Giannoni, colto eremita e monaco camaldolese che viveva isolato a Mosciano, sulle colline toscane. Come si potesse trasformare in giornalismo prime time la vita mistica di un saggio, curvo sulle opere di San Giovanni della Croce e le profezie di Isaia, non avrei saputo immaginare, eppure Schiavone ci riuscì: la sua magia nel coniugare cronaca e sentimenti, storytelling e emancipazione è qui viva come allora, consapevole, struggente, affascinante.
Gianni Riotta
Docente Princeton University.
