Per quante persone anziane la solitudine diventa una malattia? La pandemia ha messo in luce, ancora una volta, quanto la lontananza fisica possa produrre un senso di isolamento e di vuoto. Tanti nonni sono chiusi in case di riposo ed Rsa, impossibilitati ad abbracciare i loro affetti più cari. Lontani da casa, da ciò che è loro familiare. E se fosse, questa situazione, uno stimolo per ripensare l’assistenza? Se la medicina potesse curare a casa propria, nel quartiere in cui si è abituati a vivere, in mezzo ad un vicinato che diventa comunità? Non è un’utopia. A Trieste già esiste un modello simile, chiamato Micro Aree, un bel film di Erika Rossi le racconta, “La città che cura”. Trasmette una visione dell’assistenza radicata sul territorio, che nasce vent’anni fa e viene realizzata nel 2005. Teatro dell’operazione sono piccole frazioni della città, più spesso quelle con molta edilizia pubblica e famiglie a basso reddito. Dove una rete di operatori sanitari – presenti in modo continuo nei caseggiati popolari – garantisce aiuti diretti in ambito sanitario, sviluppa relazioni di aiuto tra i cittadini e sinergia tra i servizi.
“Perché se la Signora Maria fa amicizia con la Signora Paola – racconta un’operatrice del progetto – invece di guardarsi con sospetto magari possono essere di aiuto l’una all’altra”. E così, gli operatori sul territorio non solo si fanno promotori di iniziative di aggregazione, creano gruppi che condividono il tempo e le attività, ma intervengono anche in caso di necessità. Un cambiamento culturale in una società in cui i modelli familiari sono sempre più instabili, le reti sociali sempre più frammentate. Ed ecco che questa sembra quasi una ricetta contro l’emarginazione: la persona e l’ambiente di vita diventano centrali, come preconizzò Franco Basaglia circa quaranta anni fa, nella sua rivoluzionaria visione che condusse alla chiusura dei manicomi in Italia. Portavoce di una medicina che dipende dalla capacità di osservare i bisogni sociali, culturali e sanitari delle persone. Persone.