Ci hanno insegnato a nascondere la nostra bellezza interiore, i moti del nostro cuore, la luce che la gentilezza amorevole emana in noi stessi e negli altri.
La nostra cultura considera l’essere “belle persone” come qualcosa da nascondere, simbolo di debolezza, di fragilità, via certa verso l’infelicità. Mostri la tua bellezza interiore? Sei un perdente.
E se cambiassimo paradigma? Se iniziassimo a pensare che possiamo essere compassionevoli eppure forti… gentili, altresì risoluti… empatici e dediti all’ascolto, ma non per questo ingenui e prossimi alla debacle sociale e professionale?
La consuetudine di considerare l’autorevolezza individuale, nei rapporti sociali come nel lavoro, incarnata da modi dispotici e privi di tatto è un retaggio culturale che non appartiene più ai tempi moderni. E’ il riscatto sociale di chi deve dimostrare di essere qualcuno sentendosi intimamente nessuno, di chi sente di valere poco e ha bisogno di seppellire il prossimo per sapere di esistere ed attestare il proprio ruolo.
Un manager capace non deve essere necessariamente un tiranno, privo di garbo e di profondità, attento solo al risultato. Al contrario. Più si tratteranno i propri collaboratori come esseri umani, mantenendo una rigorosità, più tutti si sentiranno meglio e renderanno di più.
Per arrivare a mostrare il proprio cuore, senza per questo sentirsi esposti e vulnerabili, bisogna osservare i risultati che un atteggiamento differente produce sulla società. Allenarsi ad essere gentili e compassionevoli in ogni circostanza della vita. Imparare ad osservare le proprie emozioni e stati d’animo, familiarizzando con esse nella consapevolezza della loro temporaneità ed impermanenza.
Essendo indulgenti ed etici con noi stessi, lo saremo inevitabilmente anche con gli altri. Se Anna Frank – testimone del dramma della Shoah – aveva un’incrollabile fiducia nel bene, chi siamo noi per non averne?