Dovevano essere i giorni della festa e della gioia per la laurea in ingegneria biomedica. Sono i giorni del dolore e della disperazione.
Giulia non si laureerà più. Non farà la fumettista, magari per passione. Non inizierà più una nuova vita, che sognava. Tutti abbiamo sperato in un epilogo diverso. Tutte abbiamo capito sin dal primo momento, ma non volevamo dircelo. I giornali cercavano di edulcorare la situazione, mostrando le immagini di due ragazzi innamorati, che sembravano quasi aver fatto la fuitina d’amore. Violenza di genere romanticizzata dai media.
Eppure a quell’amore che la limitava, Giulia aveva messo un punto ad agosto.
Non una fuga, dunque, ma un sequestro di persona. Giulia è stata prima rapita dall’ex fidanzato, incapace di accettare di non poterla più controllare. Poi aggredita. Tutto premeditato, forse (le indagini si stanno svolgendo mentre scrivo). Giulia non era scomparsa, come è stato scritto. Giulia stava pagando per essere brava all’università, per laurearsi prima, per essere proiettata verso una vita autonoma.
Ho spesso parlato di linguaggio consapevole. La narrazione della violenza di genere ha bisogno di accuratezza, riflessione, comprensione. Dietro la scelta di ogni parola esiste un’azione, un comportamento, un sistema di valori sul quale dobbiamo fare un lavoro massiccio e deciso.
Abbiamo assistito alla retorica del “bravo ragazzo”, ancora una volta. Anche i bravi ragazzi possono essere non educati al rispetto delle donne, delle loro decisioni e della loro libertà, all’accettazione del diniego, all’elaborazione del fallimento. Anche i bravi ragazzi possono diventare carnefici, ormai dovremmo averlo capito, tra stupri di gruppo e femminicidi. Giulia è l’ottantatreesima donna uccisa in ambito familiare in Italia, secondo i dati diffusi dal Viminale. Poteva essere una qualunque di noi. Quante donne dovranno ancora essere uccise per capire che la violenza di genere è una piaga di questa società?
Quante volte ancora dovremo chiamare mostri uomini che vivono loro accanto dichiarando amore? E quante volte ancora dovremo colpevolizzare la vittima per aver accettato di vedere un’ultima volta il proprio ex? Diciamo alle donne di proteggersi, ma chi educa gli uomini? Chi trasmette l’esempio ai giovani? Chi li segue davvero? Chi li aiuta a decodificare i propri stati d’animo, a saper accettare l’inevitabile senso di inadeguatezza che ogni essere umano prova, il fallimento che tutti nella vita incontriamo più e più volte?
Abituiamo i nostri ragazzi ad essere difesi in qualunque circostanza, picchiamo i professori se osano riprenderli, li geolocalizziamo ossessivamente senza preoccuparci di cosa stiano facendo, li giustifichiamo davanti alle peggiori nefandezze. Avremmo mai immaginato che, invece di provare vergogna e terrore per il loro comportamento, saremmo arrivati ad ascoltare genitori che li giustificano quando sono coinvolti in stupri di gruppo? Adulti che additano le vittime delle violenze come provocatrici poco di buono se disinibite sessualmente, ma comunque non consenzienti. La responsabilità viene sempre attribuita alle donne, come se gli uomini fossero legittimati a compiere ogni azione.
Donne considerate come oggetti di proprietà da usare. Consumare. Violare a proprio piacimento per le proprie esigenze. Era facile, un tempo, accusare lo straniero abusante. Il diverso, l’altro. Oggi il terrore è in casa, lo vediamo crescere ogni giorno accanto a noi. Incrociamo la violenza per strada, a scuola, al lavoro. E, il più delle volte, non diciamo nulla. Ogni volta che una donna viene lasciata sola ad occuparsi della famiglia, ogni volta che una donna deve sacrificare il proprio lavoro e la propria realizzazione perché “tanto non c’è alternativa”, ogni volta che una donna viene controllata e giudicata per come si veste, per chi frequenta, ogni volta che una donna viene retribuita di meno, ogni volta che una donna viene zittita, esclusa nei convegni, che si usano toni paternalistici verso di lei…. ogni volta stiamo assistendo ai semi della violenza. Semi che, prima o poi, daranno i loro amari frutti. Talvolta tragici. Magari non dentro casa nostra, ma nella società.
Il problema è culturale. Ed il lavoro è collettivo.
Gli uomini tentano di uccidere ed uccidono le donne perché non accettano le loro scelte, non ne riconoscono l’autonomia fuori dal perimetro della coppia, la libertà di cambiare strada o evolversi in modo diverso. Un modo che può scalfire alcune certezze maschili basate su una cultura del possesso e del controllo.
La violenza sulle donne non è una battaglia femminista. E’ una battaglia che ci riguarda tutti.
Come anche le responsabilità di ciò a cui stiamo assistendo.
Le donne sono tutte principesse e vanno trattate come tali ❤️e questa cosa va insegnata sin dalle elementari