A distanza di giorni da quello che sembrava uno scandalo che ha sconvolto il mondo (io ancora mi devo riprendere della lettura di certi commenti sui social), rivediamo i fatti liberi da sdegno e rabbia. 

Nella cultura tibetana si saluta tradizionalmente tirando fuori la lingua già dal IX secolo (lo ha raccontato anche la BBC: si mostra per dimostrare che non è nera, come quella di un re tibetano molto impopolare, Lang Darma. Lo si fa vedere anche nel film “Sette anni in Tibet” con Brad Pitt, che magari a qualcuno suona più familiare). Ugualmente, nella cultura tibetana, accade spesso che persone eterosessuali si bacino sulle labbra. Ognuno ha le sue usanze: nella Russia sovietica lo facevano anche gli uomini in segno di cameratismo socialista. Alcuni nostalgici post – comunisti di ambo i sessi ancora lo fanno. In Occidente ci si scambiano due baci sulla guancia, talvolta tre, talvolta una stretta di mano, talvolta uno slang incomprensibile tipo “Bella, frate'” a Roma o “Ciao, bella gioia!” a Milano. Nel cristianesimo i baci sulle labbra tra persone etero simboleggiano pace e fratellanza (lo dice il Nuovo Testamento).

Al Dalai Lama piace molto giocare e prendere in giro le persone. Lo fa con tutti. Da sempre. Guardando l’intero video non tagliato, si osserva come scherzi con il bimbo al pari di un tradizionale nonno tibetano non abbiente con un nipote che gli chieda caramelle o monete. Giochi tipo: “Baciami sulla guancia, incontra la mia fronte, lascia che i nostri nasi si tocchino, e ora che hai avuto tutto da me, rimane solo la mia lingua da mangiare” (tradotto: non ho niente, nipote caro!)… Il Dalai Lama parla inglese, ma non lo capisce perfettamente, tanto che quando il bambino esprime il desiderio di abbracciarlo, inizialmente non comprende. Dal video integrale il bambino non appare turbato, così come la famiglia, né i 120 presenti all’incontro tenuto il 28 febbraio in un sobborgo di Dharamshala (ricordiamo questa data). Bimbo e mamma vengono intervistati lo stesso giorno da Voice of Tibet, ringraziando con il cuore per l’incontro, definito una “benedizione” (strano che un molestato e la mamma non lamentino un trauma!). Per quaranta giorni, tutto normale. Silenzio. L’8 aprile scoppia il panico: l’episodio viene trasformato in un incidente da The Times of India. La campagna di diffamazione verso il Premio Nobel per la Pace è spietata. Su tutti i siti online un video tagliato ad arte crea disgusto e sdegno. L’ufficio del Dalai Lama si scusa. Perché? Perché sono dei gran signori, dal cuore buono e dalla sensibilità acuta. Troppo per noi. Capiscono che l’episodio può aver dato adito a fraintendimenti e non vorrebbero fosse strumentalizzato. Cosa già accaduta. Incriminazione: cattiva condotta sessuale.

Si poteva evitare quel comportamento? Si. Ma anche no. Non è detto che una tradizione valida in un contesto debba essere censurata perché non comprensibile ad un’altra cultura. A me non piacciono gli abiti da monaca e i burka, sono un po’ vanitosa e modaiola, mettiamo. Me la prendo con le suore e le donne islamiche? No. Li indossassero serenamente. 

La campagna dei troll cinesi è iniziata e non fa sconti, lo denuncia il giornale americano International Business Time, evidenziando l’incessante attività dei falsi account cinesi sui social e dei numerosi troll (Yin Sun@NiSiv4 su twitter; Robert Reed su YouTube; gruppo “Deterrente contro gli abusi sui minori su Facebook, rimosso; petizione “salvate i bambini dal Dalai Lama – fermiamo gli abusi sui bambini, per citare qualche nome).

Perché la Cina? Molti studiosi, non ultimo Filippo Scianna, Presidente dell’Unione Buddhisti Italiani, sostengono che il Dalai Lama sia intervenuto sulla questione del riconoscimento di un Maestro a loro sgradito (Jetsun Dampa Kalkha Hutuktu) e che la furia mediatica sia stata contemporanea alla simulazione di attacchi a Taiwan da parte della Cina. Ben nota a tutti dovrebbe essere l’occupazione militare del Tibet, da parte della Repubblica Popolare Cinese, dal 1959.  

La notizia viene diffusa dai media indiani a macchia d’olio. Ognuno ci mette il suo. Voglia di fare lo scoop, superficialità, mancanza di verifica delle fonti. Qualcosa di equanime c’è: il giornalismo fa acqua un po’ ovunque.

Ora, dopo aver infangato un personaggio che ha portato pace, amore e speranza nel mondo, forse qualcuno (a parte lui) si sente meglio: non fa orrore solo la Chiesa Cattolica, ma tutta la religione, gridano gli occidentali. Per una settimana sappiamo contro chi sfogare ire, frustrazioni, paure, angosce, livori.

Interessante. Io mi prenderei un momento per riflettere, lasciandovi all’articolo originale di Marco Respinti (documentazione, studio, fonti sono tutte frutto del suo lavoro), che qui mi sono permessa di riassumere arbitrariamente (leggi l’articolo) in modo anche un po’ leggero. Dentro troverete riflessioni molto più interessanti delle mie.

Questa è una vicenda che ha molto da insegnare. Non solo a livello professionale, per me giornalista che ama la verità. Ma anche e soprattutto a livello umano: delle dinamiche che ci portano a non rispettare gli altri, a non contemplare modi di vivere, agire, pensare, diversi dai nostri, a non approfondire prima di formarci un’idea, a seguire il gregge che punta il dito contro qualcuno, a non avere mai dubbi sulle apparenze, a fare di tutta l’erba un fascio…

Ah. Serve specificare che siamo tutti contro la pedofilia? E che, qualora mai un qualunque leader spirituale avesse un comportamento che danneggi anche solo un moscerino, dovrebbe pagare ed essere riabilitato come chiunque altro, senza se e senza ma.  

P.S: Ho messo un altarino con l’effige di Umberto Eco, dopo aver letto certi commenti sui social.